Perugia decadence

Principalmente l’analisi della “criticità” dell’area di Fontivegge” si orienta sulla questione della sicurezza : “Per tale ambito si comprende come tutta la zona, ed in particolare l’area coperta dell’Ex Upim, il sottopasso laterale in uscita dalla piazza della stazione verso la farmacia, ma anche la stessa Piazza del Bacio, genera uno stato di insicurezza, di non tranquillità, di rischio potenziale per chi la frequenta o l’attraversa per usare i vari vettori. La stessa area, va tenuto conto, è anche interessata da noti fenomeni di spaccio di droga, una realtà i cui effetti e implicazioni negative si distribuiscono e si irradiano nelle dinamiche sociali e di vita dei vari quartieri, nonché a livello esistenziale di persone e famiglie. Un intervento su questo aspetto può quindi generare riscontri positivi per il complesso della città e non solo. Si segnala, tra l’altro, la mancanza di un presidio fisico di forze dell’ordine che rafforzi la percezione di sicurezza.” (ricerca effettuata dal comune)

Come scrive Bauman, l’esperienza della insicurezza esistenziale e dell’incertezza viene dirottata nella preoccupazione generale per le minacce alla sicurezza personale. “Questo spostamento è politicamente (cioè elettoralmente) allettante e ciò per una ragione pragmatica molto convincente. Poiché le radici dell’insicurezza affondano in luoghi anonimi, remoti o inaccessibili, non è immediatamente chiaro che cosa i poteri locali, visibili, possano fare per porre rimedio alle afflizioni locali. Se si riflette attentamente sulle promesse elettorali dei politici per migliorare la vita di tutti aumentando la flessibilità dei mercati del lavoro, favorendo il liberismo, creando condizioni più allettanti per i capitali stranieri ecc., si possono cogliere, casomai, i segni premonitori di una maggiore insicurezza e incertezza. Ma sembra esistere una risposta ovvia, all’altro problema, quello connesso alla sicurezza personale dei cittadini in quanto collettività. I poteri statali locali possono sempre essere impiegati per chiudere le frontiere ai migranti, per inasprire le norme sul diritto d’asilo, per fermare ed espellere gli stranieri indesiderati, sospettati di possedere inclinazioni odiose e condannabili. Possono mostrare i muscoli combattendo i criminali, <<essere inflessibili nella lotta al crimine>>, costruire più prigioni, mandare più poliziotti in servizio attivo, rendere il perdono dei condannati più difficile e persino, per soddisfare i sentimenti popolari, seguire la regola <<criminale una volta criminale per sempre>>.

Per farla in breve, i governi non possono francamente promettere ai cittadini un’esistenza sicura e un futuro certo; ma possono per il momento, almeno in parte, alleviare l’ansia accumulata ( approfittandone anche a fini elettorali) con l’esibire la loro energia e determinazione in una guerra contro gli stranieri in cerca di lavoro e altri stranieri penetrati nel giardino di casa, un tempo pulito e tranquillo, ordinato e accogliente…

La classe politica locale, incapace di immaginazione strategica riguardo al governo della crisi economica e sociale che investe l’Umbria, supplisce a questa debolezza con una deriva securitaria, con la militarizzazione del territorio, con una spirale repressiva che diventa di elezione in elezione un pozzo senza fondo.

Non meraviglia allora che l’onorevole Bocci del PD, in un’interrogazione parlamentare del 2011, chiedeva all’allora ministro dell’interno Maroni di valutare “la proposta del Sindaco di Perugia (allora Boccali) che prevedeva l’apertura di un CIE in Umbria”…

Sono divenute strutturalmente vacillanti la famiglia, la comunità, il vicinato, il quartiere, la città stessa nella quale gruppi di popolazione differenziati in base a criteri di età, genere, classe, dis/abilità, etnicità, preferenze sessuali, cultura, religione hanno rivendicazioni diverse e lontane da vecchie modalità di aggregazione confortevoli e automatiche.

Nella città esistono problemi di una complessità tale che non potranno essere risolti né dalle istituzioni né dal mercato e neppure dalle tradizionali forme di conflitto basate sulla protesta e sulla rivendicazione. Per andare oltre è necessario praticare l’obiettivo, formulare una domanda di condivisione dello spazio-tempo urbano, liberato dal valore di scambio e riconsegnato, grazie alla partecipazione degli abitanti e alla loro azione, al suo valore d’uso.
Ma esiste la voglia di reclamare un diritto alla città non concepito come la possibilità di accedere a ciò che già esiste ma piuttosto come il diritto a cambiare l’esistente attraverso la reinvenzione della vita urbana, come trasformazione della città stessa?

Per trasformare una città probabilmente c’è bisogno di tornare ad esperienze di partecipazione ed auto-organizzazione sociale che offrano nuove forme di vita. Oggi più che mai per vincere la miseria del quotidiano servirebbe una progettazione sociale che possa cambiarci l’esistenza, un contesto a cui legarsi ed appartenere, insomma una vita da vivere.

“Il diritto alla città ha senso solo se pensato come un diritto materiale, ovvero come qualcosa che non esiste se non nelle lotte concrete che lo realizzano.

Inoltre il tema del diritto alla città non può essere pensato come un ritorno nostalgico a una città che è stata, in cui si annullano le differenze e le contraddizioni, pensiamo che sia una idea reazionaria desiderare la città che fu ordinata, pulita, senza conflitti.

Non si ha diritto alla città se non c’è redistribuzione della ricchezza prodotta dal territorio.

A partire da qua, il resto, è tutto da discutere.

Ovviamente si ri-parte da dove si è con quello che si ha. E noi non abbiamo nient’altro che la volontà di cambiare l’esistente.