Cosa succede in città

Anche a Perugia, sotto la compressione della cosiddetta “crisi economica” la già fallimentare “socialdemocrazia dal volto urbano” ha ricevuto il colpo di grazia, con essa le sue strategie basate su politiche di decentramento dei servizi, di spesa statale per la ricostruzione artificiale delle identità dei quartieri indirizzate a “tenere insieme la città'”.

In uno scenario di stagnazione e recessione economica, le manovre di risanamento del debito, adottate dai diversi governi nazionali, hanno comportato una drastica riduzione della spesa pubblica e un conseguente taglio dei trasferimenti sociali, che tanto contano nella formazione del reddito disponibile per gli umbri. Nessuna manovra di razionalizzazione finanziaria e di aggiustamento del bilancio può compensare queste perdite.

La struttura produttiva di questa regione del resto è sostenuta da una base di microimprese, spesso in sub-fornitura per aziende esterne al territorio locale con un mercato del lavoro nel quale il peso dell’occupazione e le forme del lavoro precario e con contratto a tempo determinato e’ superiore alla media nazionale. L’area del precariato, già rilevante, si è andata ulteriormente consolidando, al punto di contare – dati 2012- su ben 59.000 contratti part-time, 44.000 a termine e 8.000 tra collaborazioni coordinate e avventizi che includono ben 2.486 lavoratori a chiamata. La ridotta dimensione delle imprese accompagnata da un’alta incidenza del lavoro in subfornitura significa, nella maggioranza dei casi, che le imprese umbre si posizionano su “segmenti a basso valore aggiunto nella catena del valore” e che il mercato del lavoro ha difficoltà ad occupare i giovani, persone con livelli di istruzione medio-alti e soprattutto le donne.

Per questo si comprendono abbastanza chiaramente i motivi per cui un sistema di potere locale, in cui la spesa pubblica serviva solo a mascherare e proteggere le debolezze strutturali del sistema produttivo e a funzionare da base di consenso politico, sia attraversato da una profonda crisi.

A partire dagli anni ’80 lo smantellamento dell’apparato dello stato sociale si è tradotto su scala urbana in imponenti tagli alle spese, ai pubblici servizi e in un’ondata di privatizzazioni che ha acuito le disuguaglianze e l’esclusione sociale. A questo la politica locale non ha saputo dare nient’altro che una risposta aleatoria, molta retorica nella valorizzazione della dimensione comunitaria, sfruttamento del “terzo settore”, interessi del sistema delle cooperative, che il più delle volte, celano l’utilizzo di manodopera altamente sottopagata e precarizzata rinforzata da una “insalubre ” legislazione nazionale sul lavoro.

Negli ultimi venti anni, l’idea di rivitalizzare socialmente la città trattandola prevalentemente come spazio economico, con l’obiettivo dominante se non unico di attrarre capitali e flussi turistici, si è tradotta semplicemente in una violenta eliminazione degli spazi collettivi, nella cancellazione del valore d’uso di strade, piazze, giardini.

La questione del “degrado del centro storico” è stata l’emblema di una logica imprenditoriale di governo della città con cui si è costruita una falsa “messa in cornice” della città come prodotto. La cosiddetta “riqualificazione” del centro storico, sotto i vecchi paradigmi della “rendita urbana” si è rivelato un vero e proprio disastro.

Il “paradigma della rendita urbana” prescrive che il valore complessivo di una città e delle sue singole aree o edifici dipende dalla quantità di capitale fisso sociale che essi incorporano in termini di infrastrutture, servizi materiali e immateriali ecc. Ma questa valorizzazione senza adeguate contro-misure alla fine si traduce in un maggior costo d’uso dello spazio urbano, vedi anche i progetti di ristrutturazione di Monteluce attualmente in corso ((la Regione Umbria decide di costituire un ‘Fondo chiuso con apporto’ per dismettere e valorizzare l’area dell’ex ospedale di Monteluce a Perugia, in accordo con gli altri proprietari, Comune di Perugia, Università degli Studi e Azienda ospedaliera di Perugia, affidando all’ istituto finanziario Nomura, partner abituale delle amministrazioni umbre, il coordinamento dell’operazione di costituzione di un fondo immobiliare, cui i partner pubblici apportano un valore immobiliare di 52 milioni di euro, ricevendo in cambio un numero di quote di 250mila euro di valore ciascuna.
Dopo anni di gestione da parte del fondo immobiliare gestito da Bnp Paribas e Nomura International Plc, il valore delle quote, in seguito trasferite a Gepafin, ma con perdite sempre a carico della Regione e dell’Università, è progressivamente sceso in misura di gran lunga maggiore rispetto alle perdite registrate sul valore degli immobili della zona.
Per ora la Regione detiene il 22,5% delle quote, l’Università il 17,2%, il Fondo comune di investimento immobiliare quotato il 30,15% e Gepafin s.p.a il 30,15%.
Se il valore iniziale era di 250 mila euro nominali, per un totale di oltre 52 milioni di euro, ora il loro valore è drasticamente sceso e si aggira sui 15 mila euro ciascuno. Ad oggi rimangono solo 5,4 milioni di ricavi e un enorme debito verso le banche creditrici che avrebbero portato al default del Fondo, se queste non avessero accettato una ristrutturazione delle scadenze, in cambio dell’impegno della Regione di acquistare indirettamente gli stessi immobili (di fatto già suoi!), attraverso Asl, Ater e altri progetti.

FONTI
http://www.umbriaon.it/perugia-a-monteluce-un-buco-milionario/

http://www.consiglio.regione.umbria.it/comparto-monteluce-unoperazione-fallimentare-dagli-aspetti-paradossali-zaffini-an-pdl)).

Questo tipo di “riqualificazione” del centro storico ha reso il suo spazio più costoso per abitare, studiare, per produrre, per i servizi ed ha favorito un oggettivo processo di espulsione degli abitanti non in grado di pagare questi “incrementi di rendita”.