Cambiare lo spazio per cambiare noi stessi

(Ovvero della vita espropriata)

 

“Il soggetto non sta tornando, semplicemente perché non era mai partito. E’ sempre stato qui, non certo però come sostanza, ma come problema e come progetto.” (C.Castoriadis)

Come cambiare la città a partire da noi stessi nella miseria della situazione in cui ci troviamo e che traspare dalla mancanza di un tessuto adeguato di comunicazione, di relazione e scambio dei comportamenti e di discussione, dall’assenza di un intreccio ricco di esperienze e saperi? I movimenti continuano ad avere solo momenti parziali di unificazione che usano le scadenze come occasioni per rovesciare la tendenza e riuscire un attimo a socializzarsi per tornare poi, un attimo dopo, a frantumarsi in piccoli cabotaggi, navigazione a vista, in percorsi di sopravvivenza individuale a zig e zag e di auto-sfruttamento, in criteri di appartenenza neo-tribali o retorici e del tutto vuoti di pratica. Oggi la nuova questione urbana ripropone in modo diverso il problema della costruzione di una nuova soggettività proletaria. Una soggettività che si presenta sempre come…problema e come progetto.

Come ricominciare daccapo senza tornare indietro? Pensare di dar vita ad una lotta politica sulla questione urbana oggi significa porre immediatamente le basi di uno scontro sulla gestione del futuro della società, sulla colonizzazione del nostro vissuto quotidiano. Come farlo? Intanto, sicuramente, partendo dal disvelamento critico e radicale del deserto che ci circonda, dalle sabbie mobili di un ultra-individualismo tanto affascinante quanto sterile ed infelice. Come uscire dall’infinita riproposizione dell’identico? Mettersi a fare del bricolage culturale estetizzante non serve, ci vuole qualcosa di più.

Oggi, la gente iperproletaria del nord del mondo accetta abbastanza l’esistente; e quella del sud aspira parecchio ad entrare nella situazione della prima.

Dunque?

Come scriveva R. Alquati “la nostra capacità oggi è una merce, e moltissime delle nostre disgrazie derivano da questo fatto. E ciò è tanto fondamentale per il capitalismo da entrare perfino nella sua definizione(…) uscire dal capitalismo vuol dire innanzitutto demercificare le merci ed in primo luogo la capacità-umana-merce.”

 

Automated Kisses dalla Nestlè

Nel marzo del 2016 Nestlé, proprietaria del marchio Perugina, annuncia un’operazione di rilancio del sito produttivo di San Sisto a Perugia che prevede investimenti per 60 milioni di euro, 45 dei quali dedicati al marketing e 15 all’ammodernamento della produzione: “nuove tecnologie e un modello organizzativo avanzato così da consentire al sito di rispondere alle necessità di mercati sempre più sfidanti”, così recitava una nota aziendale.

Le rappresentanze sindacali accettano di supportare il piano di sviluppo e ottengono garanzie occupazionali: almeno fino al 2018. Cioè per tutta la durata del piano, si procederà con gli ammortizzatori sociali, ma non ci saranno licenziamenti. Parte dell’accordo è una commissione di gestione congiunta con rappresentanti della RSU e dell’azienda: un organismo che deve entrare nel merito del piano, “riunendosi settimanalmente per gli aspetti tecnici e gestionali e con cadenza trimestrale/semestrale per quanto riguarda il progetto di sviluppo, il business e il mercato”.

Nel primo anno tutto sembra andare a gonfie vele, anche i dati sulla crescita all’estero sono confortanti.
La scelta di Nestlè di investire sui Baci per farne un brand globale e aumentarne la produzione da i suoi primi frutti: l’export di Baci Perugina registra una crescita di oltre il 40%. Tuttavia a maggio 2017 – l’azienda annuncia che alla scadenza della cassa integrazione non sarà possibile “assicurare la continuità occupazionale” a circa 365 lavoratori tra produzione e logistica:
L’azienda spiega che gli investimenti in atto generano un “progressivo incremento dei volumi di produzione della fabbrica di Perugia”, ma che “in virtù degli investimenti tecnologici che aumentano il livello di automazione della fabbrica, e delle tempistiche necessarie per la penetrazione commerciale all’estero – l’incremento dei volumi produttivi potrà tradursi in un corrispondente incremento dei livelli occupazionali solo nel lungo termine“. Nel frattempo il fondo di investimento ‘Third Point’ acquista oltre 40 milioni (1,3 % di tutto il capitale) della Nestlè, diventando così l’azionista più importante del Gruppo e ha chiede un innalzamento del 5% della redditività operativa, revisione dei business e il riacquisto di azioni proprie. Chiede cioè lo spostamento di enormi risorse da progetti di investimento produttivo a un uso finanziario per un valore triennale di circa 30 miliardi.

Il manager dell’azienda Gianluigi Toia dichiara: “Il piano Perugina è stato approvato dalla casa madre, va avanti. Capisco la reazione dei sindacati, forse pensavano che fosse più facile crescere nel mondo. Ma non è il momento di rimbalzarsi le responsabilità e di fissarsi su improbabili proroghe degli ammortizzatori: la ricetta è quella della mobilità interna al gruppo, degli incentivi, della formazione, del ricollocamento degli esuberi sul territorio”. “Dobbiamo riequilibrare l’occupazione alla produzione e alla logistica –ha annunciato Leo Wencel, amministratore delegato di Nestlè Italia – e per una fetta degli 819 lavoratori non si può garantire la continuità”. In breve, il posto è sicuro solo per il 70% degli addetti. C’è da aggiungere che, nel 2018, la Cig straordinaria non sarà più rinnovabile.

La chiamano “industria 4.0”: i finanziamenti europei destinati all’ industria 4.0, nei prossimi anni creeranno problemi per l’occupazione, perché si tratta di finanziamenti per far crescere l’automazione degli impianti e la digitalizzazione dei servizi e del commercio che innescherà un processo che alcuni definiscono la 4° rivoluzione industriale con una previsione, in Europa, di 7 milioni di esuberi parzialmente recuperati, nella migliore delle ipotesi, da 5 milioni di nuovi posti di lavoro e quindi con la creazione netta di 2 milioni di disoccupati.

“Forse l’accordo firmato un anno fa non lo avevamo capito bene…” cosi’ ha dichiarato il responsabile della Flai-Cgil Michele Greco. .. D’altra parte il sindacato non aveva ben capito lo stato delle cose nemmeno nel 1999 quando Nestlé portò la direzione a Milano. Non ci fu neppure un’ora di sciopero e scomparirono di colpo una moltitudine di impiegati, quadri, fornitori, servizi. Oggi i politici regionali, i sindacati non comprendono, o fanno finta, “ la quarta rivoluzione industriale”: Si tratta di quella che nel 1930 John Maynard Keynes, con grande lungimiranza, chiamava “disoccupazione tecnologica”. La cosiddetta “quarta rivoluzione industriale” creerà una netta divisione nel mercato del lavoro tra “privilegiati” e precari. Forse è il caso di reimmaginare ci un’altro Welfare, un nuovo Stato Sociale che garantisca una vita dignitosa a donne ed uomini al di là del lavoro salariato piuttosto che affidarsi ai “piani industriali” delle multinazionali???